La porchetta dei Castelli
Il sapore sapido ma non eccessivo, il colore fra il bianco e il rosato, il contrasto tra la morbidezza della carne e la crosta croccante, che si mantiene così a distanza di giorni dalla cottura. Queste le caratteristiche della pregiata Porchetta di Ariccia, a cui l’Unione Europea nel 2010 ha attribuito il marchio IGP.
Il procedimento di produzione qui è un’arte che si tramanda da una generazione all’altra: le carcasse delle femmine del maiale, salate e massaggiate, vengono speziate con una miscela di pepe nero, rosmarino e aglio e l’intero procedimento è effettuato esclusivamente a mano, così come la legatura con ago e spago naturale. La cottura avviene in forno metallico a una temperatura compresa tra 160 e 280 gradi e dura da tre a sei ore. La carne viene infine posta in sala di raffreddamento a una temperatura che oscilla fra 10 e 30 gradi, per 5-15 ore, così avviene l’eliminazione dei liquidi residui e del grasso superfluo e la porchetta è in grado di conservare le proprie caratteristiche per molti giorni.
In quest’ultima fase il clima dolce dei Castelli ha un ruolo fondamentale nella riuscita del prodotto finale: l’aria mite garantita dalla fitta macchia boschiva – con castagni, lecci, pioppi, faggi – e i venti marittimi che arrivano dalle coste laziali favoriscono la lenta e graduale eliminazione dell’umidità, rendendo la carne tenerissima.
Dal 1950 la specialità viene celebrata con una longeva sagra che si svolge ogni anno ai primi di settembre, nel centro storico del paese: i porchettari, vestiti con i costumi tradizionali ariccini, vendono la prelibata specialità su bancarelle e chioschi addobbati a festa, tra esibizioni di artisti di strada e spettacoli musicali.
La Porchetta di Ariccia è proposta anche da Rovagnati, priva di glutine e perciò indicata anche per l’alimentazione dei celiaci.
Non solo ad Ariccia
Ma la porchetta non è solo di Ariccia! La ritroviamo nel nord della Penisola, nel trevigiano; a Rieti e Viterbo, dove la lavorazione del suino fu avviata addirittura in epoca etrusca; a Campli, piccolo borgo della provincia di Teramo (Abruzzo), ai piedi dei cosiddetti Monti Gemelli; in Toscana – rinomata quella del Chianti –, nelle Marche e in Romagna; a Perugia e dintorni – qui in passato c’era l’usanza, nelle domeniche di maggio, di venderla fuori alla chiesa del paese, al termine della messa, così le persone la compravano e festeggiavano tutti insieme il mese dedicato alla Madonna; infine in Calabria e Basilicata.
E non è uguale dappertutto: quella teramana, così come la più famosa dei Castelli, è imbottita con “un bosco de rosmarino” e aglio, mentre nell’Italia Centrale (Alto Lazio, Umbria, Marche) viene aromatizzata con il finocchietto selvatico, che le conferisce un gusto più importante.